Il legmi di Jerba
Dall’oblò dell’aereo che sta per atterrare sull’isola di Jerba vedo scorrere veloci le macchie di palmeti che chiazzano il suolo grigio-chiaro e piatto e mi soccorre alla mente un altro ben più remoto sbarco di Siciliani, via mare, su questa placida isola tunisina. Accade nel settembre del 1284 quando il Re Pietro D’Aragona incarica Ruggero di Lauria di conquistare l’avamposto africano. Il nobile fuoruscito – originario della Basilicata e fratello di latte di Costanza d’Altavilla – subito dopo la nomina a comandante della flotta, guida le sue truppe nella spedizione contro i Mori, ne uccide in battaglia 4mila e invia ben 6mila prigionieri, come schiavi, in Spagna. Il sagace, ma spietato ammiraglio, per questa impresa, riceverà il titolo di Conte di Jerba, e il dominio dei Cristiani, accompagnato da un’esosa tassazione annuale in monete d’oro, si protrarrà fino al 1335, quando i Jerbini conquisteranno l’indipendenza che perderanno solo nel XVI secolo con l’avvento dei Turchi.
Mappa di Jerba da Wikimedia
Nel bazar di Houmt-Souk, il capoluogo dell’isola, i venditori quando sentono il mio parlare in Arabo, che è caratterizzato da un forte accento del Cairo, non possono che spalancare occhi e bocca per poi sorridere in modo sconnesso. E’ come se uno di noi sentisse un nativo del Medio Oriente esprimersi in italiano, ma con lo stesso accento e i modi di un Alberto Sordi; l’effetto è da imputare alla pluridecennale produzione cinematografica della capitale egiziana che viene tuttora esportata nei paesi della Mezzaluna, per cui tutti gli Arabi comprendono ed amano il dialetto egiziano. Stabilire dunque un contatto privilegiato è per me questione di frazioni di secondo anche perché, appena inizio a parlare, vengo subito bloccato dalla consueta domanda posta con tanto di occhi sgranati. “Ma sei Egiziano?” chiedono, “Sì, ma solo per parte di madre” rispondo, strizzando un occhio, e a quel punto le nostre mani destre scattano all’unisono per scambiarci un sonoro cinque seguito da fragorose risate.
Abdu Muhammad Al-Hammasi mentre vende il legmi a Houmt-Souk
Sto girovagando per il Mercato Libico, che si svolge ogni lunedì e giovedì; lo chiamano così perché una parte della merce esposta nelle bancarelle – mista a tanta altra made in China – proviene da quel paese, e mi imbatto in un Jerbino che seduto su di uno sgabello distribuisce in un bicchiere di vetro, per 20 centesimi di Dinaro (€ 0,15), una bevanda misteriosa. Il magro capannello degli avventori è formato da locali, e nessun turista si avvicina, o forse si è già allontanato in fretta quando ha notato che lo stesso bicchiere veniva risciacquato, dopo ogni bevuta, nello stesso secchiello. “Eh da?” mi informo, dopo il rituale saluto, dal titolare che si chiama Abdu Muhammad Al-Hammasi: Che è sta roba? “E’ il legmi” risponde. E me lo dice come se l’avessi dovuto conoscere per forza. Insomma, è linfa di palma da dattero.
Abdu me ne versa una razione colma fino all’orlo e i presenti, che ora sono stati affiancati da un folto gruppo di giovani curiosi, mi osservano attentamente mentre con studiata teatralità ne scruto con calma, in controluce, il colore, di un lievissimo grigio panna, ne annuso il profumo, ne assaggio un sorso – ha un sapore gradevole che ricorda il succo delle noci di cocco mischiato a quello dell’ananas – e dopo aver ciondolato il capo chino, come per esternare la mia approvazione, ne svuoto tutto il contenuto. “Wallahi el haga dì, ana muta’akkid, tasbut el-mukh!”. Sta cosa qui – dico, ad alta voce, rivolgendomi alla platea – ne sono sicuro, ti sistema il cervello! E per rafforzare il commento, ne sollecito un’ulteriore mescita.
Il padrone di questo microbar ambulante – composto da un motorino, due anfore con tanto di filtro di rafia, il suddetto secchiello, sgabello e bicchiere – estrae di persona il succo da palme che ha in “leasing” da alcuni proprietari dell’isola ai quali dà, per sdebitarsi, una quota di legmi. Gli chiedo se posso vederlo quando è all’opera; mi scruta col capo di traverso, con i suoi occhi scuri in un viso da cinquantenne reso ancor più affaticato dai suoi spioventi baffi, e dopo qualche tentennamento, come se dovesse rivelarmi qualche segreto nazionale, mi dà l’indirizzo della sua abitazione per vederci nel pomeriggio.
Qualche ora dopo Sahli (ساحلى ) un tassista con il quale durante il tragitto intreccio una conversazione, mi porta a Al Riyad, una frazione di Al May, al centro di quest’isola il cui punto più alto non supera i cinquanta metri. Egli conosce bene l’artigiano, e mi sta per lasciare davanti ad un bar dove poi posso chiedere di esservi accompagnato da qualche locale, ma prima di scendere dal taxi mi preme terminare l’argomento che avevo iniziato con lui.
Lo spunto mi era stato dato da una piccola e antica moschea del luogo, di rito wahabita – il rito predominante ortodosso qui è il Malikita – da poco restaurata, per la quale avevo chiesto all’autista di fermarsi affinché la visitassi. Avevo notato infatti, andando in giro per l’isola, un numero spropositato di questi luoghi di culto se paragonati ai 120 mila abitanti e quindi ne avevo chiesto spiegazioni al tassista. Mi informa che le quasi 300 (trecento) moschee sono frutto delle acque salmastre del sottosuolo e davanti all’aggrottare della mia fronte va nei particolari. Nei tempi passati ogni moschea di villaggio aveva un suo pozzo artesiano dal quale attingevano tutti gli abitanti; quando l’acqua potabile di quella zona veniva interamente prosciugata dagli utilizzi ed affiorava la sottostante soluzione salina, tutta la comunità si spostava su un’altra area dove ricostruiva il villaggio, la nuova moschea e il relativo nuovo pozzo. Oggi l’acqua potabile arriva dalla terraferma tramite un acquedotto che passa sulle tracce di una carreggiata Romana del II secolo A.C. e ogni abitazione ha la sua cisterna.
Datteri di Jerba della varietà Lemsi
Pago delle spiegazioni concordo che lo richiamerò sul cellulare quando avrò terminato l’escursione e mi affido ad un messo che mi porta per viottoli, tratturi e arsi campetti delimitati da fichi d’India e punteggiati dalle onnipresenti palme, delle quali se ne contano su tutta l’isola sul mezzo milione. Scorgo spesso anche alberi di ulivi, melograni, carrubi, arance, eucalipto, mandorli e fichi. Abdu è rannicchiato davanti alla sua dimora e sta affilando su di una pietra bagnata – mentre una nera figura di donna appare fuggevole – l’arnese del suo mestiere: un sottile falcetto.
L’uomo si apre ad un sorriso quando gli porgo una corposa guantiera di dolci, acquistati in una rinomata pasticceria di Houmt-Souk. Mentre li sceglievo ne avevo assaggiato uno di ogni tipo – i più a base di mandorle, sesamo, pistacchi e miele – e devo dire che quasi superano, in sensazione, la squisitezza barocca di quelli fatti in Sicilia.
Abdu è una persona di poche parole; mi presenta il figlio che si affretta a tirar fuori da un riparo di rami di palma, che qui chiamano zeriba, una vetusta e anchilosata Peugeot e – con il padre che fa da battistrada con il suo motorino – ci inoltriamo per qualche chilometro lungo un accidentato viottolo, finché non arriviamo davanti ad una “manzila”, un’ampia e bassa dimora. Qui deve contrattare non poco con l’ottuagenario proprietario per consentirmi di accedere alla sua piantagione di palme. Ad Abdu chiederò poi come mai questi avesse un dipendente che, benché parlasse un tunisino stretto, presentava una carnagione così scura; mi spiegherà che apparteneva ad un’esigua comunità nera, originaria dagli schiavi Sudanesi che venivano portati a Jerba, in attesa di spedirli nelle Americhe.
Le essudazioni dello rastremato apice della pianta da dattero; a destra la “manzila” del proprietario.
Abdu Muhammad sulla palma per la manutenzione della zona apicale
L’artigiano si sta ora inerpicando tramite una sgarrupata scaletta di legno addossata al fusto della palma e stando attento a non farsi trafiggere dai numerosi e coriacei aculei degli steli, si porta sulla sommità di quest’albero la cui corona apicale è stata sfrondata per potervi intagliare una punta forgiata a cono. Al momento il manufatto è coperto da una sporta di iuta, sia per evitare assembramenti di insetti vari sulla linfa che sta sgorgando, sia per proteggere le ambite essudazioni dal sole. Sotto il cono è rimasta la raggiera delle ultime ramificazioni basali che, come in un ombrello, curvano verso il basso. Abdu sgancia dalla cinghia dei pantaloni il falcetto – e per un istante i miei ancestrali occhi di Europeo lo vedono strasfigurato in un Mamelucco con turbante che sta per menarmi un fendente con la sua aguzza scimitarra – ed inizia un lavoro di fino per raschiare un sottile strato di quel cuore di palma. Ciò, ogni tanto, è necessario affinché i suoi pori, di nuovo liberi da occlusioni zuccherine e dal restringimento naturale, continuino a secernere la linfa che l’inconsapevole tronco invierà ai rami fantasma per 2-3 settimane, al ritmo di 5-7 litri al giorno, a secondo della varietà e della dimensione della palma. Il fatto stupefacente poi, è che se il cono viene lasciato a riposo, getta fuori i germogli dei nuovi rami della cima.
La brocca, attaccata nel finale della canalina, che è stata intagliata come su di un piano inclinato nel legno intorno al cono, ha già un buon quantitativo di legmi. Abdu me ne riempe un bicchiere che ha tratto dal suo tascapane e mi fa cenno di salire. Mentre lo bevo atteggia delle mosse con le mani senza profferire verbo e ammicca un sorriso furbo, ma non capisco. E così lui accentua la pantomima: ah, ecco, il Legmi viene considerato dalla gente del luogo come una specie di viagra a basso costo. La linfa gode di buona fama anche tra i dipendenti delle industrie chimiche di Gabes per il suo supposto potere antitumorale e viene inoltre apprezzata, dopo averla fatta fermentare per un qualche giorno, come blanda bevanda alcolica.
E venuto il momento di andare via; chiamo Sahli per riportarmi in albergo e con il figlio di Abdu ci avviamo verso Al Riyad. Qui, in attesa del taxi, sgranocchio un cartoccio di semi di zucca, acquistati in un chiosco. Il piccolo negozio vende oltre a dolciumi e bibite, anche sigarette sfuse, e i ragazzi del luogo ne stanno comprando una, due, a volte cinque, tutte insieme. E la memoria, in un baleno, mi riporta indietro di tanti anni, quando anch’io, da ragazzo, spesso mi presentavo ad un tabaccaio sul lungomare di Messina, anch’esso adornato di palme, e chiedevo – senza batter ciglio, mettendo una moneta da venti lire sul banco – una Nazionale (nove lire) e un’Esportazione (undici), e il gestore, innervosito per l’oculato e parco acquisto, si rivolgeva ad alta voce alla moglie che era nel retrobottega: “Concetta, cala a pasta c’arrivaru i Miricani!”.
Il quadrilatero di Jerba. In basso, all’estrema destra, il confine con la Libia e in alto l’isola di Lampedusa.
Una vista più ampia tratta dal sito www.eosnap.com dove si nota anche Pantelleria, parte della Sicilia e del Deserto Libico.
Situata nel Golfo di Gabes, davanti alla costa dell’estremo sud della Tunisia, Jerba si presenta come un irregolare quadrilatero di 28 per 17 km. Il suo capoluogo, che conta 25 mila abitanti, è Houmt-Souk. La vegetazione è costituita per lo più da palme le cui varietà – Aguiwa, Mtata, e Lemsi (la più pregiata) – producono dei buoni frutti, mentre i datteri delle piante selvatiche sono utilizzati come foraggio; consistente a Jerba, come del resto in tutta la Tunisia, è anche la produzione di olio d’oliva. Tra le voci di reddito dell’isola – pesca, agricoltura, artigianato e turismo – quest’ultimo dà di gran lunga il gettito più importante, con flussi che provengono da Germania, Francia, Italia e paesi dell’Est Europa – attratti dalle bianche ed ampie spiagge di fine sabbia della zona sud-est. Qui, una costante brezza, oltre a mitigare le alte temperature estive, ne fa un luogo ideale per gli appassionati di windsurf, vela, catamarano e kitesurf.
La Sinagoga di El Ghriba
Nei pressi di Al Riyad, sorge la Sinagoga di El Ghriba, conosciuta anche come Hara Seghira, fondata nel 584 A.C. da profughi ebrei fuggiti dall’Oriente. L’undici aprile del 2002 le mura di cinta del luogo di culto, dove si custodisce la Torah più antica esistente al Mondo – ma nel quale si ha oggi l’impressione di respirare un’atmosfera ingessata – sono state investite dall’esplosione di un camion carico di bombole di gas liquido. Il mezzo, guidato da un integralista islamico Franco-Tunisino, residente a Lione, ha ucciso 19 persone, la maggior parte turisti tedeschi, e causato quindici feriti; da allora sono state adottate misure draconiane di controllo sulle auto che sbarcano a Jerba e una capillare presenza di polizia sul territorio. Altre testimonianze di una passata e fiorente comunità ebraica si ritrovano nei villaggi di Hara Srira e Hara Kbira.