Coda alla Vaccinara
Nella foto un piatto con ricetta di “Sora Lella”, la sorella di Aldo Fabrizi che a Roma aveva aperto l’omonimo ristorante, tuttora in attività.
***
Gli abitanti della capitale, si sa, “magnano” bene. Qualche anno fa, mi è capitato di gustare la Vaccinara in una famiglia romana; Emilio e Iole, i padroni di casa, avevano preparato un pranzo degno di un Imperatore Romano.
Si è iniziato con penne all’arrabbiata che abbiamo annaffiato con vino rosso: un Chianti Sorelli del ’98 DOC da 12,5°. Chi preferiva il bianco si è invece avvalso di un Frascati San Matteo da 11,5° dello stesso anno.
Eccezionale il sapore che aveva l’acqua minerale presente a tavola, la più antica di Roma: la Egeria della fonte Acqua Santa di Roma che si trova in via dell’Almone 111, tra l’Appia Nuova e l’Appia Antica. “Se ce vai cor bicchiere – mi dice Emilio – nun paghi ‘na lira, se ‘a voi portà via, 0,8 euro a litro”.
Iole intanto mi dà la ricetta per la Vaccinara: far bollire per un’ora una coda di vitellone già tagliata a pezzi, scolarla e metterla in un tegame per farla rosolare con del sedano e olio; versarvi quindi un bicchiere di vino rosso secco – Chianti o Barolo – ridurre di volume, aggiungere Passata di pomodoro e lasciar cuocere a fuoco lento per un’ora e mezza fin quando la carne comincia a staccarsi dall’osso. Se il sugo arriva ad una consistenza tale che si attacca alla carne, spargervi sopra una grattata di cioccolato fondente e poi amalgamare il tutto.
Dopo la Vaccinara è stato servito un arrosto di vitellone, ma io ho preferito i Carciofi alla Romana con patate al forno; sulla tavola vi era anche un Rosso secco e aspro, annata 2000, della Cantina sociale Bacco di Nettuno e poi, in fondo alla tavola, dove era seduto Francesco, il genero della Iole, stazionava un’insignificante bottiglia di plastica che però, quasi alla fine del pranzo, ho appurato che conteneva un nettare del ’99, derivato da un vitigno della Ciociaria: il Cesanese di Affile; sebbene di gusto amabile e leggermente brioso, esso si adattava a tutti ì pasti, compresi i dolci che poi sarebbero arrivati.
Di questo vino ne fanno una produzione contenuta, e molti lo tagliano con altri vini affini per ricavarne di più, per cui bisogna conoscere proprio il vignaiolo per essere sicuri che esso sia originale, ma Emilio alla mia richiesta di informazioni sul produttore è rimasto sul vago.
La Iole invece mi ha fornito anche la ricetta dei Carciofi alla Romana: dopo aver levato le dure foglie esterne e inserito in mezzo ai carciofi delle punte di acciuga, li si mette in un tegame a testa in giù con mentuccia, aglio, prezzemolo, abbondante olio d’oliva extra-vergine e un bicchiere d’acqua che si asciugherà dopo una mezz’ora di messa al forno.
Emilio, nel frattempo mi fa sapere che a Roma si usa bere anche la Romanella, un vino rosso e spumeggiante dei Castelli; imbottigliato a Marzo e messo in grotte di tufo, spumeggia quando si stappa la bottiglia.
La padrona di casa ha infine portato a tavola un vassoio di “cruderie”, carote, sedano, pomodori, finocchi e ravanelli, e il pinzimonio che usano a Roma, detto cazzimperio – ricetta citata dal poeta Gioacchino Belli in un suo vernacolare sonetto del 1831 e qui presentata con vaschette ripiene di aceto balsamico e pepe nero amalgamati con olio di oliva extra-vergine.
I dolci – Tozzetti con le mandorle – li abbiamo accompagnati con un eccezionale Limoncello fatto in casa da Emilio che stavolta s’è sbottonato per la ricetta: bucce di sette limoni di Amalfi provenienti da coltivazione biologica – senza traccia della polpa bianca interna – da far riposare per venti giorni in un litro e mezzo di Alcol a 95°. Si aggiungono quindi a freddo, sciolti prima in acqua calda, 700 grammi di zucchero, si agita bene il tutto, si attende tre settimane e poi si filtra; il liquore lo si degusterà ghiacciato da freezer. “Dovresti assaggià i profitero’ colla crema de’ Limoncello!” mi consiglia la Iole; li hanno scoperti all’Hotel Amalfi, che prima faceva anche da pasticceria, nell’omonima famosa località della Costiera Campana.